Per secoli tradurre è stata un’attività complementare, spesso ritenuta utile anche ai fini creativi, ma per lo più esaminata da un punto di vista letterario; fino ai giorni nostri, infatti, la traduzione “specializzata” non si riteneva ponesse problemi interessanti.
Per secoli tradurre è stata un’attività complementare, spesso ritenuta utile anche ai fini creativi, ma per lo più esaminata da un punto di vista letterario; fino ai giorni nostri, infatti, la traduzione “specializzata” non si riteneva ponesse problemi interessanti. Del resto, in epoca classica si traduceva per scopi eminentemente pratici; gli “intellettuali” greci erano generalmente e fondamentalmente ostili verso ciò che proveniva dall’esterno, mentre, per i romani, pur non rappresentando più un “male indispensabile”, la traduzione era comunque mezzo di comunicazione, e per questo considerata strumento di arricchimento e potere. Livio Andronico, il prototraduttore per eccellenza, era uno schiavo che traduceva a fini di “romanizzazione”, giacché i lettori del tempo erano, in generale, poliglotti e l’esercizio pedagogico e retorico sopravanzava l’interesse divulgativo. Per i coevi di Cicerone e Orazio, insomma, la traduzione era ancora attività d’elite. Un certo poliglottismo permase, ovviamente tra i ceti abbienti, fin quasi alla fine del Medioevo quando, con il tracollo del greco e del latino come lingue unificatrici e l’espansione araba nell’Europa mediterranea, si affermarono esigenze diverse. L’avvio della tradizione letteraria dominante fu conseguenza dell’affermarsi del potere del Papato. Nelle intenzioni di papa Damaso, infatti, la Vulgata doveva essere strumento di testimonianza stabilendo un’interpretazione unica che doveva fare del Nuovo e dell’Antico Testamento il testo canonico, anche se poi ottenne il riconoscimento ecclesiastico solo poco prima del Concilio di Trento, come uno dei numerosi tentativi controriformisti. Malgrado l’autorevolezza del committente, infatti, le perplessità erano così forti che Girolamo annoverò tra i più feroci oppositori anche Agostino di Ippona, che pure non sapeva di ebraico e vantava solo vaghe conoscenze di greco[1]. L’invenzione della stampa aveva, infatti, dato un’impensata forza alla traduzione facendo aumentare vertiginosamente il numero di traduzioni da una lingua europea all’altra, con conseguenze enormi per la divulgazione della letteratura profana e, appunto, religiosa, nell’intento di fornire un testo quanto più trasparente possibile alla gente comune. Con Lutero e Calvino la traduzione era diventata strumento di rivoluzione ideologica (per Luteroübersetzen corrispondeva a “germanizzazione”), ma rimaneva comunque attività ristretta all’ambito classico, riservata a pochi eruditi ed eminentemente linguistica, con il celebrato Leonardo Bruni a sostenere che non v’era parola nel greco che non potesse essere resa parimenti in latino. Proprio a Bruni, peraltro, si deve, nel 1404, per l’errata interpretazione di un passo di Gellio, l’introduzione del verbo “traducere” (trasportare), che si diffonde nel significato attuale (rendere in un’altra lingua), sostituendo traslatare e tralatare. Ma, in definitiva, l’idea di rifondare la cultura su basi laiche prendendo a modello il mondo classico è un tentativo di resistere alla contaminazione derivante dal contatto con i popoli barbari, e un’inversione di tendenza si avrà solo con la consapevolezza della necessità di mettere le emergenti discipline scientifiche al servizio delle esigenze politiche. Così, nel 1540, La maniere de bien traduire d’une langue en aultre di Etienne Dolet rispose all’obbligo della diffusione della lingua francese, ma valse all’autore un’accusa di ultraciceronianismo e di eresia, la tortura e, infine, il rogo. Tra il XVII e il XVIII secolo, la diffusione delle idee illuministiche procurò una serie di effetti bivalenti. Il miglioramento delle condizioni generali di vita produsse un incremento demografico che aggravò una situazione economica resa precaria dalla politica dissennata delle monarchie europee e i contrasti tra le classi sociali. Parallelamente, la crescita delle classi mercantili alimentò nuove esigenze e un nuovo modello culturale. La rivoluzione francese segnò l’epilogo di questi svolgimenti e l’affermazione della moderna società borghese, creando le condizioni per lo sviluppo della libera concorrenza e l’emancipazione della forza produttiva industriale. Questa trasformazione non toccò l’Austria e la Prussia interessate da modeste, ma efficaci, opere riformatrici, la Russia, per l’assenza di una classe borghese e la Spagna, dove l’oscurantismo della Chiesa frenava qualunque tentativo di uscire da un’atavica condizione semifeudale. Alla rivoluzione borghese europea fece eco la rivoluzione americana, pur con alcuni necessari distinguo, primo fra tutti l’assenza, nella seconda, di uno spirito universale; ma i traffici tra vecchio e nuovo mondo favorirono anche gli scambi culturali e la necessità di comunicare cominciò a presentare anche la traduzione come un prodotto da vendere e acquistare. Valgano, per tutti, gli esempi di Jonathan Swift, di Voltaire, e di Thomas Jefferson. Il primo era consapevole delle difficoltà di comunicazione tra individui e della necessità di superarle, ed era ferocemente critico verso l’immobilismo culturale del suo tempo. Nei Viaggi di Gulliver, giunse a ipotizzare, con il consueto tono satirico, per il tramite dei tre professori della scuola di lingue dell’accademia di Lagado, di abolire le parole per usare direttamente al loro posto gli oggetti su cui verte il discorso.[2] Tuttavia, la traduzione non acquista ancora dignità propria, né come attività letteraria, né, tanto meno, come attività economica. Il passaggio dall’illuminismo al romanticismo, poi, pur segnando un cambiamento radicale di concezione del mondo collega modo di pensare e visione del mondo alla lingua[3]. Si richiamano visioni classiche che affidano alla traduzione l’obiettivo di ricreare l’effetto dell’originale (Leopardi) e stigmatizzano ogni modifica del testo che introduca elementi culturali appartenenti alla cultura locale come «generalizzazioni dell’originale che in quanto tale possono essere considerate falsi».[4] Bisogna dunque aspettare il Novecento, con la nascita degli organismi internazionali, le due guerre mondiali, la grande depressione e le prime avvisaglie di una globalizzazione ancora di là da venire per cominciare a vedere la traduzione come strumento di espansione. Nel XX secolo, l’accresciuta facilità delle comunicazioni e dei movimenti ha fatto aumentare il volume degli scambi che, a sua volta, ha indotto una maggior domanda di traduzione accrescendone, di conseguenza, l’importanza. La traduzione esce dagli angusti ambiti letterari ed entra in quelli commerciali, bellici, politici con la forza della necessità. Eppure, Ortega y Gasset ancora descrive i testi “tecnico-scientifici” come basati su una terminologia preventivamente stabilita e, quindi, «già scritti nella stessa lingua in tutti i paesi»[5]. Evidentemente, non bastano duemila anni per superare l’elitarismo e il velleitarismo artistico che hanno da sempre caratterizzato la traduzione: la traduzione specializzata è e resta la figlia illegittima di un’arte minore. Questa concezione è, però, palesemente deviante perché danneggia la traduzione stessa relegandola ad attività secondaria. E per sostenere la giustezza di un approccio reso anacronistico e antistorico dai fatti, proprio nel Novecento si assiste al florilegio degli studi teorici sulla traduzione, in un crescendo di aberrazione, tale da condurre, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta all’enunciazione di unaÜbersetzungswissenschaft, ancorché diluita nei translation studies e nella traduttologie, con buona pace di Galileo e di Newton. È vero che nei due decenni precedenti, il problema del tradurre si era ridotto a una questione di pura equivalenza linguistica, a un processo di (de)codifica, ma questa frenesia pseudoscientifica porta a sostenere che «è facilissimo tradurre un testo in modo tale che risulti accettabile alla cultura d’arrivo, ripulendolo di tutto quello che lo caratterizza; la pura e semplice trasmissione dei contenuti è un’operazione senza qualità, tipica di una società che tende a trasformare l’opera d’arte in prodotto».[6] La traduzione vive, quindi, da sempre, una propria asimmetria corrispondente alla mancata coincidenza tra tempo storico e tempo culturale, e al dominio di una prospettiva letteraria che la priva del valore che le deriva dall’essere attività economica. L’idea che solo la traduzione “colta” abbia diritto a una propria dignità offende quanti operano con sacrificio, dedizione, successo e soddisfazione nel settore della traduzione commerciale. Quest’atteggiamento, inoltre, autorizza, nemmeno tanto implicitamente, a perpetuare i consueti stereotipi della traduzione come attività secondaria, donnesca e transitoria. E questo malgrado le cifre parlino di una vera e propria industria che fattura miliardi di euro e in cui la fetta “colta” della torta equivale al 5%. È utile, allora, riportare le parole di Sylvia Notini[7]: «è comunemente riconosciuto che i testi tecnici e scientifici siano più straightforward di altri testi, e che le difficoltà nel tradurli siano più di tipo lessicogrammaticale che di stile. In linea di massima possiamo affermare che un testo tecnico-scientifico non presenta difficoltà culturali, o di connotazione, che quasi mai si avvale di un linguaggio figurativo, che contiene pochi idioms, ed è privo dicolloquialisms, a meno che non sia molto informale, quasi una conversazione. Il traduttore del testo scientifico o tecnico è limitato da quello che potremmo chiamare il linguaggio standard, quasi gergale, del settore a cui si riferisce. La traduzione di un testo che possegga qualità letterarie, invece, è molto più difficile. Sono ancora in molti a credere che una traduzione tecnico-scientifica debba essere retribuita più di quella di un testo letterario, poiché si pensa che quest’ultimo, più facile da capire, sia anche più facile da tradurre». [1] In una lettera all’amico Paolino da Nola, Girolamo si lamentò dei “dilettanti” che si arrogano il diritto di emettere sentenze sulla Bibbia. [2] I viaggi di Gulliver, Parte III, Capitolo V, 1735 [3] Willhelm von Humboldt, La diversità delle lingue, 1836 [4] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882 [5] José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione, 1937 [6] Emilio Mattioli, dalla prefazione a Il movimento del linguaggio di Friedmar Apel, Marcos y Marcos, 1997 [7] In Manuale di traduzioni dall’inglese, a cura di Romana Zacchi e Massimiliano Morini, Bruno Mondadori, 2002 Il presente articolo è stato estratto dal seguente sito web: www.s-quid.it/divagazioni
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